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Crowdfunding de ‘noantri

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Provate ad immaginare Sergio Marchionne che chiede a noi italiani di contribuire, di tasca nostra, a pagare il salario degli operai FIAT, per mantenere gli attuali livelli occupazionali. Trovereste l’iniziativa lodevole? E direste anche che è da imitare? Mah, ne dubito. Allo stesso modo, mutatis mutandis,  ho delle forti resistenze rispetto al progetto di crowdfounding  GLI OCCHI DELLA GUERRA che è stato lanciato di recente dalle colonne de Il Giornale. Perché ammanta con una bella parola - giornalismo partecipativo - una iniziativa che in realtà serve solo a sgravare l’editore dai costi fisiologici che bisogna sostenere quando si fa informazione. Creando inoltre un precedente che, da un lato rischia di affossare anziché accrescere la copertura degli eventi internazionali e dall’altra finisce per alterare, scorrettamente,  il rapporto fra giornalisti contrattualizzati e giornalisti free-lance.

Partiamo dall’inizio. Stando a Wikipedia, il crowdounding non è nient’altro che ”un processo collaborativo di un gruppo di persone che utilizza il proprio denaro in comune per sostenere gli sforzi di persone ed organizzazioni. È un processo di finanziamento dal basso, che mobilita persone e risorse“. E infatti GLI OCCHI DELLA GUERRA  è un progetto che punta a raccontare i troppi conflitti e le tante aree di crisi sparse per il mondo, chiedendo ai lettori di sostenere i vari reportage che via via si andranno a realizzare con un piccolo (o grande) contributo finanziario. Un’ottima idea, non c’è che dire. E non ci sarebbe niente di male se a lanciarsi in questa impresa fosse un gruppo di free-lance, visti i compensi ridicoli che qui in Italia ricevono dagli editori, oppure un’Associazione no-profit. Invece, GLI OCCHI DELLA GUERRA è un’iniziativa che è stata sostenuta e promossa da Il Giornale - si legga l’intervento dell’amministratore delegato Andrea Pontini sulla home page del sito – per poter mandare in giro i propri giornalisti senza tirar fuori una lira. E allora, siamo proprio sicuri, come dichiara Toni Capuozzo, sempre dalla home page del sito, che con GLI OCCHI DELLA GUERRA  il lettore  “acquista non dico la verità ma un pezzetto di onestà, di lealtà e di realtà” ?  Io non ne sarei così sicuro. E mi piacerebbe che i colleghi che hanno avuto l’idea, tutti bravi e stimabili, si facessero qualche domanda in più.

L’informazione, infatti, è un bene prezioso. Che costa. E che deve costare. Soprattutto l’informazione dall’estero, tanto più se da zone di guerra. Lo sanno bene gli editori veri, che portano i propri inviati in palmo di mano e possono così vantarsi di offrire ai propri lettori  notizie di prima mano. Qualcuno obietterà che queste mie parole fanno riferimento ad una realtà che è stata spazzata via dalla crisi in cui versa il mondo dell’editoria. Ed è’ vero ma solo in parte. Perché  l’uscita dalla crisi non può essere affidata a scorciatoie. E non è con i trucchi che si va avanti, tutt’al più si vivacchia. In questo mercato sopravvive , infatti – e lo dimostrano illustri casi all’estero – chi ha il coraggio di sperimentare, investendo e non serrando i cordoni della borsa, ristrutturando sì ma non smantellando.

In parole povere, se passa l’idea che i reportage dall’estero devono pagarli i lettori, beh, ci scaviamo la fossa. Ed offriamo agli editori un valido pretesto per trasformare “gli esteri” in un optional, da allegare al giornale una volta ogni tanto, come fossero un servizio in più, a zero costi. Se inoltre non c’è trasparenza nell’operazione, se cioè non vengono pubblicati i nomi e il relativo contributo di chi aderisce a questo crowdfunding de noantri - e non mi pare questo venga fatto per GLI OCCHI DELLA GUERRA – c’è sempre il rischio che scelte e contenuti dei vari reportage possano essere influenzati da soggetti paganti che nulla hanno a che vedere con il  ”cittadino” e che perseguono invece interessi di parte.

Last but not least trovo che questa iniziativa possa tradursi anche in una concorrenza sleale nei confronti dei giornalisti free-lance. I quali non hanno certo le pagine di un grande quotidiano per lanciare le loro operazioni di crowdfounding e rischiano perciò di essere ancor più marginalizzati (e sottopagati). Se un editore può infatti mandare un suo giornalista a coprire un’area di crisi senza dover spendere una lira, perché mai dovrebbe comprare da quella stessa area un pezzo da un free-lance?  Insomma, magari mi sbaglio, ma a me pare che all’estero il giornalismo partecipativo e il crowdfunding funzionino diversamente. Il dibattito è aperto.

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